Il Palio - Curiosità e aneddoti

Un piccolo prontuario per comprendere meglio le regole del Palio e le sue "storie"

Ultima modifica 4 luglio 2023

Il significato della parola "palio"
La parola italiana "Palio" che deriva dalla parola latina "Pallium" ha più di un significato:
- il "pallium" sarebbe stato in primo luogo un pezzo di stoffa di forma rettangolare che veniva indossato come indumento dagli antichi romani;
- designava una corsa di cavalli (curriculum equorum) in onore di Marte, istituita da Romolo.

Nel Medioevo, invece, ha assunto anche altri significati: 
- quando si correva il palio delle contrade si usava dire "facere cursum palii" o "currere ad palium" 
- la parola "palio" stava ad indicare il drappo (pannus) che si dava in premio a chi vinceva una corsa di cavalli. Il drappo era un pezzo di stoffa, con ancora la forma rettangolare con cui era uscita dal telaio; poteva essere di lana, cotone e seta, in velluto o broccato. Poteva indicare anche diverse braccia di stoffa pregiata offerte ai vincitori della gara 
- con il nome di "palio" si designavano le ricche stoffe che la città o i Signori offrivano al Santo Patrono della città dalla quale dipendevano 
- stendardo o bandiera

Attualmente la parola "Palio" indica:
- la corsa dei cavalli 
- il drappellone, (detto anche "cencio" che viene dato alla contrada vincitrice della corsa)


Il Palio ieri
Il Repertorio di Diritto Patrio Toscano, vigente nel Granducato Toscano, testimonia che le corse dei cavalli, sia che venissero cavalcati, sia che corressero senza cavaliere, erano parte integrante delle feste popolari laiche e, soprattutto, di quelle che concludevano le giornate di festeggiamenti dedicati a qualche Santo. Per capire perché è nato un Palio a Casole e non nei territori limitrofi (Colle Val D'Elsa, Poggibonsi, S.Gimignano, Volterra) va ricordato che Casole ha avuto due forti dominazioni che hanno influito significativamente sul suo sviluppo: i Vescovi di Volterra fino al XIII secolo e la repubblica Senese dal '200 e, definitivamente, dopo la battaglia di Montaperti.

Le famiglie nobili senesi si divisero castelli e contrade rendendo il territorio di Casole assoggettato a Siena, sotto tutti gli aspetti: economici, militari, amministrativi e culturali. Gli stemmi del Palazzo Pretorio di Casole, che vanno dal 1300 al 1600, sono una chiara testimonianza di ciò. 
E' quindi realisticamente ipotizzabile che le nobili famiglie senesi coinvolgessero nei preparativi per la corsa del Palio di Siena le fattorie ed castelli del contado di Casole che rappresentavano per loro una grande fonte di reddito. 
Ma il desiderio di indipendenza da Siena era grande e fu espresso, prima, dalle lotte dalla nobile famiglia casolese dei Porrina e, successivamente, da altri legittimi tentativi dei casolesi di crearsi un Podestà e trasformare Casole in città autonoma con una propria giurisdizione amministrativa. 
L'apertura al pubblico degli eventuali archivi privati, legati alle famiglie nobili proprietarie delle fattorie e dei castelli, consentirebbe forse di capire se nell'arco di oltre 300 anni, si sia giunti alla costituzione di ceppi autonomi da Siena desiderosi di esprimere, oltre alla propria libertà, anche un proprio Palio. 
Ma vi sono scarsi riferimenti al Palio nei documenti del Comune e della Chiesa. 
E' certo, però, che il Palio di Casole veniva corso non da "contrade" (come il Palio di Siena), ma da "fattorie", cioè dalle aziende agricole che fornivano cavalli e fantini. Si spiega così perché il Santo a cui è, storicamente, dedicato il Palio, è San Isidoro, protettore degli agricoltori.

(tratto da “Il Palio di Casole d’Elsa” di Bente Klange Addabbo e Inge Lise Rasmussen)

La figura di Sant'Isidoro
In Toscana si trovano testimonianze del culto di Sant’Isidoro, probabilmente tramite la presenza di spagnoli, già prima della sua canonizzazione. Nella metà del 1500 sembra essere stata viva la devozione a Sant’Isidoro, raffigurato in tavolette votive e, nel 1620 si decise di fondare una Compagnia dedicata a lui nel Piano di Ripoli. 
Altre testimonianze si trovano a Rovezzano, dove c’è un tabernacolo con tracce di una pittura raffigurante Isidoro databile dopo il 1622 ed a Taverne d’Arbia dove il culto del Santo viene fatto risalire al 1622, anno della canonizzazione, tramite il passaggio sulla Via Francigena di pellegrini spagnoli. 
Isidoro fu venerato nella chiesa di S.Giacomo a Monteselvoli; poi nel “Chiesino” del nobile Cosimo Finetti appositamente costruito al centro di Taverne d’Arbia (inizio 1800); infine (dal 1962) nell’attuale chiesa parrocchiale di Taverne d’Arbia, intitolata a Sant’Isidoro e decorata da splendide vetrate di Fiorenzo Ioni e da bellissimi dipinti di Giuseppe Ciani.

Parlare di Sant' Isidoro significa parlare dell'influsso politico, militare e culturale della Spagna in Italia. Nel 1555 Siena (e con essa Casole) cessava di essere una repubblica indipendente in seguito alla grande sconfitta subita dai Medici, ma soprattutto da Carlo V Imperatore. 
Con Carlo V e con gli spagnoli, i senesi avevano avuto rapporti sin dal 1535, anno in cui l'Imperatore, proveniente dal regno di Napoli e diretto verso il nord, decise di fermarsi a Siena per quattro giorni. L'entusiasmo dei senesi in quella occasione fu travolgente non prevedendo le future ostilità dovute all'intento spagnolo di assimilare gradualmente lo stato senese nell'impero. 
Con Carlo V (il cui figlio, Filippo II, per breve tempo fu signore dello stato senese (1556-57) ed in seguito con la dominazione medicea, la presenza della cultura spagnola in Toscana, soprattutto nel senese, si fece sentire in modo determinante fino al 1700. Basta ricordare che lo stesso Cosimo I dei Medici aveva per moglie la principessa spagnola Eleonora di Toledo; che il figlio, Francesco I, era stato educato presso la corte imperiale di Spagna; che Caterina dei Medici, governatrice di Siena nel 1667, era vedova del duca spagnolo di Mantova. 
Sono ben noti gli intrecci culturali e politici dopo che Carlo V divise il suo impero cedendo al fratello Ferdinando gli stati germanici e al figlio Filippo II il vastissimo regno di Spagna che comprendeva le Americhe, le due Sicilie, i Paesi Bassi, la Borgogna, il ducato di Milano, la Sardegna e, per l'appunto, lo stato di Siena. Non è un caso che lo stesso Sant' Isidoro, è diventato oggetto di culto oltre che in Spagna, nelle campagne francesi, tedesche ed italiane, in particolar modo nella Toscana. 
Isidoro, un umile contadino di Madrid, era vissuto, secondo un'incerta tradizione agiografica, dall'anno 1070 all'anno 1130e fu canonizzato durante il breve pontificato di Gregorio XV, il 12 marzo 1622, nello stesso giorno di Ignazio di Loyola, Teresa d'Avila,Francesco Saverio e Filippo Neri. 
Isidoro era conosciuto solo attraverso la tradizione popolare o un manoscritto di Giovanni diacono del XIII secolo, di cui, dalla metà del 1500, furono pubblicate più edizioni: in spagnolo, in latino e perfino una riduzione in versi. Durante le ultime fasi del processo di canonizzazione, l'erudito domenicano Don Bleda scrisse, in due libri, la vita ed i miracolo di Sant'Isidoro, mentre il 1600 vede la Relazione del Cardinale Del Monte ed il contributo di Daniel Papebrook agli Acta Sanctorum Maii. 

(Liberamente tratto da"Il Palio di Casole" di Bente Klange Addabbo e Inge Lise Resmussen)

La vita del Santo (dalla Biblioteca Sanctorum)
Era nato da umili genitori, fu educato alla pratica delle virtù cristiane, di cui diede eccelsa prova nella sua vita. La povertà della famiglia lo costrinse ad impiegarsi giovanissimo nel lavoro dei campi, a cui si preparava ogni mattina ascoltando la S. Messa e raccomandandosi a Gesù e alla Madonna. Rimasto presto orfano, fu assoldato per i lavori agricoli da un ricco possidente, chiamato Vera, che lo prese subito in simpatia per la sua fedeltà e la dedizione al lavoro. Questa predilezione provocò l'invidia degli altri operai che presero ad accusarlo di tralasciare il lavoro per dedicarsi agli esercizi di pietà, accuse generosamente perdonate da Isidoro. 
Presa Madrid dai musulmani spagnoli (gli Almoravidi), il santo dovette fuggire insieme a tanti altri, e si recò a Torrelaguna dove sposò una ragazza chiamata Toribia (oggi beata Maria de la Cabeza) che fu emula d'Isidoro nella pratica della virtù. Prese anche lì a lavorare per un ricco proprietario, ma dovette sopportare di nuovo l'invidia dei suoi compagni di lavoro e i sospetti del padrone che arrivò a pretendere da lui un rendimento maggiore che dagli altri. Isidoro sopportò tutto con grande pazienza, miracolosamente premiato da Dio che faceva fruttare in modo straordinario il suo lavoro. A vendo poi ceduto al padrone tutto il grano prodotto dal podere datogli affinché lo coltivasse per sé, Dio moltiplicò il poco grano rimastogli insieme alla paglia che si era riservata e il miracolo fu la risposta alle accuse mossegli dai compagni invidiosi e dal padrone diffidente. 
Tornò poi con la moglie a Madrid, ove si impiegò presso Giovanni di Vargas, guadagnandosi la sua stima fino al punto di divenirne il fiduciario nella conduzione di tutte le sue terre. Perseguitato ancora dalle accuse degli invidiosi, lo stesso Vargas si decise ad accertare se fosse vero, come gli raccontavano, che Isidoro si dedicava, anche in campagna, a pregare invece di lavorare la terra. Infatti riuscì a vederlo in preghiera mentre alcuni angeli aravano i campi: la sua stima quindi si mutò in venerazione. 
La vita di Isidoro trascorse così come modello di fedeltà ai suoi obblighi di lavoro e di pratica delle virtù cristiane, specialmente della carità verso i poveri, coi quali divideva spesso quel poco che aveva. Morì nel 1130 ca., fu tumulato nel cimitero di S.Andrea e quindi nel 1170 trasferito nella chiesa dello stesso titolo dove era stato battezzato". 
Dopo la Vita scritta da Giovanni diacono verso il 1275 che narra anche alcuni miracoli verificati per opera di Isidoro in seguito alla sua morte, molti altri miracoli sono stati aggiunti da scrittori posteriori. Il principale fu la guarigione del re Filippo III, ottenuta dal contatto con la salma di Isidoro trasportata in processione alla stanza di lui moribondo il 16 novembre 1619. Bisogna infatti ricordare come Isidoro, diversamente dai santi canonizzati nello stesso giorno, era già ritenuto santo in Spagna da almeno 500 anni, per voce di popolo che ricorreva a lui per protezione e guarigioni, ma soprattutto per ottenere la pioggia durante i frequenti e terribili periodi di siccità. 
Le virtù che hanno fatto di Isidoro un santo universale attraverso i secoli sono sostanzialmente morali e legate alla sua vita e professione: quella di contadino. Alle virtù morali, infatti, quali la prudenza, la temperanza, la giustizia, l'obbedienza e la fedeltà, fanno appello come modello i grandi divulgatori del cattolicesimo dal '500 al '700: i Gesuiti e, per la Toscana in particolare nell’800, i nuovi fautori dell’ideologia risorgimentale rappresentati dal barone Ricasoli che, in sant’Isidoro, vide il santo giusto per la riforma economica e morale che aveva in mente di intraprendere nelle sue fattorie in Chianti. Nel 1840 Bettino Ricasoli decise di soppiantare le feste di primavera celebrate in maniera "pagana" dai contadini della fattoria di Brolio, con una festa dedicata a Sant’Isidoro (peraltro già presente nella venerazione religiosa di quella gente), che avrebbe incluso una "mostra dei bestiami della fattoria con premiazione dei contadini più capaci nel loro mestiere". 
Sant’Isidoro, sin dalla canonizzazione, si prestava come modello di virtù, tutto chiesa, campo e famiglia – necessarie per il buon andamento del lavoro di mezzadro che ha caratterizzato la realtà contadina in Toscana nel medioevo fino al 1964, anno in cui è stata vietata la stipulazione di nuovi contratti di mezzadria. E’ noto come gli anni Cinquanta e Sessanta corrispondano ad una crescente crisi dell’agricoltura in Italia e ci sembra sintomatico che il Palio di Casole, dedicato a Sant’Isidoro, venga sospeso proprio in quel periodo per una quindicina di anni fino al 1976. 
Da allora è stata ripresa la festa con le molte incertezze dovute alla dimenticanza di una tradizione secolare contadina e, perciò, trasmessa solo oralmente o dal vivo del comportamento, non da fonti scritte che sono prerogative di ambienti cosiddetti "colti". 

(Liberamente tratto da "Il Palio di Casole" di bente Klange Addabbo e Inge Lise Rasmussen)

Una storiella quasi vera
"Come la frazione di Monteguidi riuscì a vincere il palio di Casole"

Negli ultimi anni Cinquanta i cavalli in campagna incominciarono a scarseggiare. Il trattore aveva preso il loro posto. Era più pratico. Consumava benzina, questo è vero, quando veniva utilizzato, ma per il resto stava lì buono-buono senza mai avere bisogno di cure particolari come un cavallo che invece deve bere, mangiare e riposare e che inoltre richiede delle pulizie, una stalla e un pascolo. Ma una volta all'anno in occasione della ricorrenza della festa di S. Isidoro, il bisogno di un cavallo, o meglio di un buon cavallo da corsa, era molto sentito nella contrada di Monteguidi. Perché la festa del protettore della campagna si chiudeva sempre con una corsa di cavalli, detto anche Palio perché il premio consisteva proprio in un drappo dipinto, bandiera, cencio o come lo vogliamo chiamare. Un bambino amato ha sempre tanti nomi. In questa occasione la frazione di Monteguidi, se pur piccola, teneva a farsi valere e, perché no, anche a vincere. Era una questione d'onore partecipare e gareggiare con una prospettiva di vittoria. Ma, come già detto, quasi di cavalli non ce n'erano più e quei pochi sopravvissuti a Monteguidi di certo non sarebbero stati capaci di vincere una gara di corsa.. 
L'ordinamento che regolava il Palio di allora diceva esplicitamente che i cavalli che correvano dovevano provenire dal Comune di Casole. Uno dei tanti compiti del comitato che ogni anno organizzava la festa era infatti quello di esaminare ogni cavallo presentato alla corsa per raccogliere i suoi nominativi e controllare la sua origine. Ora, per vincere, perché era questa l'aspirazione degli abitanti di Monteguidi, cosa fare? Quando dopo il lavoro gli uomini si riunivano era questo l'argomento di quasi ogni discorso. Cosa fare? 
A qualcuno poi venne in mente di cercare un buon cavallo oltre i confini del Comune. Perché ci si rendeva conto che soltanto con l'inganno Monteguidi avrebbe potuto ottenere la vittoria. Si trattava di trovare un cavallo imbattibile, un vero cavallo da corsa. In giro vennero fatte delle ricerche, e si arrivò alla conoscenza di un puro sangue arabo che a suo tempo addirittura aveva fatto parte della corte imperiale. A dire il vero, era un po' zoppo ma in confronto agli altri cavalli a disposizione nel Comune di Casole sarebbe sempre stato un fulmine. Così ci furono degli accordi e il cavallo arrivò a Monteguidi. Ma c'era da vedere come poter ingannare il comitato esaminatore che proveniva da Casole paese. Fu deciso di mettere il purosangue arabo su un pascolo parecchio lontano da Monteguidi paese, sperando che una sana pigrizia avrebbe impedito loro di interessarsi più di tanto del cavallo iscritto alla corsa. Infatti, quando quelli del comitato arrivarono e a loro venne indicato un cavallo che in lontananza un po' zoppicante si muoveva tra un albero e l'altro, senza un attimo di esitazione, lo accettarono.. 
Il secondo problema da risolvere fu come presentare il cavallo clandestino alle eliminatorie senza svelare subito le sue grandi capacità di cavallo da corsa. Infatti, fu assai duro il compito del fantino, perché facendo finta di niente doveva sempre stare attentissimo a frenare ogni movimento che potesse svelare le doti nascoste del cavallo. Ma il fantino era bravo e ci riuscì. Soltanto quando a Casole venne celebrata la festa di S. Isidoro e ci fu la corsa vera e propria, il fantino di Monteguidi dette al cavallo la possibilità di utilizzare tutte le proprie forze. Il purosangue, con i colori bianco e nero come la Balzana di Siena, superò senza nessuna fatica sulla lunga pista di salita uno dopo l'altro tutti e cinque i cavalli presenti. Quando arrivò al traguardo certi si trovavano soltanto a metà strada, perché la rapida salita “alla romana” è dura da farsi per un cavallo, che non sia ben addestrato e che non sa equilibrare le proprie forze per cui 'scoppia' subíto. Per poter vincere, oltre a delle buone gambe, ci vuole anche un cavallo che sappia quando è il momento di avanzare soltanto e quando invece bisogna mettercela tutta. 
Così alla piccola frazione di Monteguidi toccò la vittoria tanto sognata. Gli abitanti furono orgogliosi perché per loro valeva il vecchio detto che dice: "in guerra ed in amore ogni stratagemma vale". La corsa era infatti stato un momento di guerra dove ogni contrada, appassionatamente attaccata al proprio territorio ed ai propri colori, aveva dato il meglio di sè. A Casole però la scontentezza fu grande. Ironicamente si parlava della frazione di Monteguidi, povera ed isolata, in mezzo alla campagna. Avrebbe, così si diceva, dovuto riconoscere il suo posto di 'parente povero' invece di darsi delle arie da 'repubblica indipendente'. Si, la scontentezza fu, secondo certe voci, così grande che dopo un po' non si corse più nessun Palio. Non c'era più gusto. Soltanto con la ripresa del Palio nel '76, Monteguidi, come una delle poche frazioni esterne partecipanti, doveva di nuovo farsi valere e vincere altri Palii, cioè il numero 107, 112 e 116. Ora i colori non erano più il bianco ed il nero come una volta, ma invece il bianco ed il giallo, i colori del Papa. E anche il vecchio regolamento, riguardante la provenienza dei cavalli, era stato abolito. Comunque anche in questo nuovo clima Monteguidi è riuscita a farsi valere tenendo alto il proprio onore.

Questa 'storiella' è stata scritta da Inge Lise Rasmussen in seguito ad una serie di interviste da lei fatte a Monteguidi, in casa Pieragnoli, il 14 giugno 1992.
(Tratto dal testo Il Palio di Casole d’Elsa di Bente Klange Addabbo e Inge Lise Rasmussen)


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